Ancora non è arrivato il tempo in cui vi racconto del perché mi trovo in Etiopia… partiamo dal come ci sono arrivata
24 maggio 2024
La partenza è stata abbastanza turbolenta, specialmente perché saremmo dovuti partire il 13 gennaio ma abbiamo dovuto posticipare la partenza al 6 febbraio. Non mi soffermerò troppo sui dettagli riguardanti questa scelta, anche perché, se poi mia nonna mai leggesse questo estratto si preoccuperebbe per la mia incolumità, mi limiterò quindi a dirvi ciò che ho detto a lei: Nonna ritardo la partenza perché ci sono stati dei disordini politici, ma non preoccuparti, se parto è perché tutto è rientrato al suo posto. E così i primi giorni freddi di febbraio (freddi relativamente per gli standard italiani…ma col senno del poi… quanto brucia il sole africano!) ci ritroviamo su un aereo con direzione Etiopia.
Siamo partiti in tre, Luca, Martina ed io, e tante speranze. Il primo giorno ad Addis Ababa è stata parecchio stancante, dovevamo svolgere questioni burocratiche per il nostro progetto (studieremo comportamento di gelada, simpatiche scimmie etiopi). Siamo quindi stati sballottolati da un ufficio all’altro in cui spesso le persone comunicano in una lingua a noi poco comprensibile: l’amarico. Ma parlando di cose più interessanti, passando per la città più volte ho osservato delle immagini pensando che non le avrei facilmente dimenticate. Le donne qui in Etiopia sono capaci di piegarsi toccando con entrambi i palmi delle mani per terra, nella così detta posizione del cane a testa in giù praticata nello yoga… mi ha impressionato vedere la facilità con cui anche donne di una certa età fanno certi movimenti, per non pensare ai pesi che trasportano. Ho sempre saputo che le donne lavorano sodo in tutto il mondo, ma quanto lavorano le donne africane? Si occupano letteralmente di tutto, dei bambini, di cucinare, della casa e in più lavorano fin da giovanissime facendo lavori fisicamente molto stancanti. Oggi un amico etiope mi ha detto: gli uomini etiopi senza donne non sono niente, siamo completamente dipendenti da loro. Ed è proprio così, glielo leggi negli occhi quando le vedi camminare con assurdi pesi sulla testa, dalle mani stremate dal lavoro e dal viso consumato dal sole.
Ovviamente non sono solo donne che mi hanno lasciato il segno, ho visto tanti bambini girovagare soli per Addis. Quando i bimbi ci vedono spesso urlano faranji che significa “uomo bianco” in amarico e ci salutano con grandi sorrisi, altrettanto spesso si aspettano che gli diamo dei soldi. Ci è stato calorosamente consigliato di non dare né soldi né cibo o c’è il rischio che si abituino ad aspettare che qualche bianco arrivi in città, e saranno demotivati nel cercarsi un lavoro vero… semplice a dirlo, difficile a farlo. Fatico molto a non dare la barretta energetica che mi porto sempre con me nel marsupio e spesso ammetto di averla regalata a un bimbo un po' di nascosto.
Addis Ababa è caotica e confusa, qui per strada trovi di tutto, persone che vendono cuccioli di cane, asini, cavalli, venditori ambulanti, drogati ai bordi della strada. Durante i primi giorni nella capitale, infatti, siamo sempre stati all’erta e vispi, i nostri contatti ci avevano messo in guardia, spesso rubano e sono molto veloci a farlo. Fortunatamente è andato tutto liscio, siamo anche riusciti a contrattare per comprare 6 materassi molto sottili che saranno i nostri futuri letti (non mi lamento eh, sempre meglio del pavimento… sono davvero sottili però).
Dopo i primi 5 giorni nella grande città siamo finalmente pronti per spostarci nel nostro sito di interesse, dove vivremo per i prossimi 3 mesi all’interno del monastero di Debre Libanos, un piccolo villaggio che ospita circa mille abitanti o qualcosa del genere, pieno zeppo di gelada nei dintorni!