Un recente studio dimostra che i ratti giocano a nascondino solo per il gusto di giocare
30 dicembre 2021
Bierens De Haan, biologo ed etologo tedesco, nel 1952 definiva il gioco come un comportamento senza alcuna funzione.
Jerome Bruner, psicologo statunitense, nel 1976 definiva il gioco come una violazione della fissità corporea, questa definizione, si adatta però, a qualsiasi comportamento purché coinvolga motilità di ciascun tipo.
Queste due definizioni quindi non dicono nulla sul gioco dal punto di vista etologico. Fino a qualche decennio fa infatti non si sapeva molto su questo comportamento e questo è dovuto alla difficoltà nel capire quali siano le funzioni di questo comportamento. La funzione dell’alimentazione piuttosto che dell’accoppiamento ci sono ben chiare da un punto di vista evolutivo, ma che ruolo ha il gioco nella sopravvivenza?
In verità oggi sappiamo che il gioco ha moltissime funzioni, sia ritardate che immediate. Marc Beckoff, co-fondatore, insieme a Jane Goodall, di “Ethologist for Ethical Treatment of Animals”, nel 1998 definisce il gioco come tutte le attività che sembrano non avere benefici ma che coinvolgono pattern motori di altri comportamenti. La differenza quindi del gioco e di quei comportamenti seri non è il pattern di movimenti che vengono reclutati ma il modo con cui vengono esibiti dall’animale stesso. Il gioco abbraccia tanti pattern presenti in altri contesti comportamentali, rielaborandoli.
Ci basti pensare a un ceffone dato sul serio, e un ceffone dato per gioco, il secondo sarà esagerato in modo tale che l’altro individuo potrà percepire in anticipo, ma allo stesso tempo non con la stessa forza che userei per dare un ceffone vero, al contrario depotenziato. Quindi i pattern di gioco sono spesso esagerati, riordinati, incompleti, brevi ripetuti, altamente variabili nella sequenza e inibiti.
Nel libro “The genesis of animal play”, l’autore Gordon Burghardt definisce cinque termini che devono essere soddisfatti affinché un comportamento possa essere definito ludico:
il gioco non deve essere completamente funzionale nella forma del contesto in cui viene espresso,
il gioco è spontaneo, volontario, si rinforza in modo proprio,
è incompleto ed esagerato, può comparire precocemente quando ancora alcune caratteristiche morfo-anatomiche non sono completamente sviluppate,
durante il gioco il comportamento è ripetuto ma non in modo rigido
il gioco è iniziato quando gli animali sono relativamente liberi da fattori stressogeni.
Elisabetta Palagi, docente universitaria presso l’Università di Pisa, ha aggiunto inoltre la presenza di specifici segnali come espressioni facciali che spesso sono usati con funzioni di tipo meta comunicativo.
Nel 2019 Reinhold e colleghi hanno fatto uno studio interessantissimo sul gioco nel ratto. Questi ricercatori hanno insegnato ai ratti a giocare a nascondino. Durante questo addestramento non veniva mai dato cibo agli animali, ma qualora i ratti risolvevano il task e quindi imparavano effettivamente a giocare a nascondino venivano premiati con solletico sulla pancia.
Studi precedenti hanno evidenziato che i ratti sono molto attratti da questa sollecitazione infatti producono delle vocalizzazioni ultra suoni che sono fortemente associate a stimoli positivi e quindi l’animale si diverte. I ratti imparavano molto velocemente il gioco e imparavano ad alternare i ruoli quindi capivano quando cercare e quando dovevano essere cercati.
Il topo veniva posto all’interno di una scatola, dopo di che questa veniva aperta da remoto ed il ratto iniziava immediatamente a cercare la persona nascosta. Quando trovava la persona allora veniva premiato con il solletico. In una seconda parte del gioco i ruoli vengono invertiti, il ratto si nasconde sotto una scatola (trasparente o opaca a sua scelta) e aspettavano di essere trovati.
Gli autori hanno osservato dei risultanti strabilianti: i ratti nel ruolo di “cercatori” si affidavano sia alle loro capacità visive che alla memoria dei luoghi in cui gli umani si erano nascosti la volta precedente. Erano quindi capaci di ricordare quali nascondigli aveva usato l’uomo alla partita precedente e andavano a controllare prima di tutto quel punto. Inoltre, quando giocavano come ricercatori, emettevano vocalizzazioni al contrario invece, erano molto silenziosi.
Quando si nascondevano preferivano andare sotto scatole non trasparenti ma opache perché capivano che altrimenti potevano essere visti più facilmente e inoltre cambiavano sempre nascondiglio tra una partita e l’altra. Quindi i ratti aggiustavano il loro comportamento in funzione del ruolo che giocavano, discernevano i due ruoli e accompagnavano questi con comportamenti completamente diversi.
La domanda che sorge spontanea è: ma perché giocano a nascondino? Cosa li spinge a farlo? Gli autori hanno generato due possibili ipotesi:
Nella prima ipotesi i ratti imparano a giocare per ottenere il solletico, quindi viene ripagato con un’attività ludica che però è a senso unico, dove l’animale è passivo e il soggetto umano propone il solletico. I ratti giocano per il premio.
Nella seconda ipotesi invece i ratti imparano a giocare e giocano perché vogliono continuare a giocare. I ratti continuano a giocare proprio per nascondersi di nuovo e continuare a giocare.
Questa seconda ipotesi implica rappresentazioni mentali estremamente complesse perché è l’attività stessa richiesta al ratto che è il gioco stesso. I ricercatori affermano che effettivamente i ratti si divertivano perché mostravano comportamenti veloci, una locomozione altamente diretta, una ricerca frenetica quindi non si fermavano mai e effettuavano salti di gioia accompagnati da vocalizzazioni di piacere. Quando si nascondevano erano silenziosi, sparivano completamente, quindi significa che non volevano essere trovati infatti quando i ratti nascosti venivano trovati, non si facevano prendere subito ma anzi scappavano nuovamente.
Questo sembrerebbe effettivamente concordare con la seconda ipotesi per cui i ratti giocavano per continuare a giocare, non per il premio in sé.
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